L'Islanda
C’era una volta un bambino solo, era sempre solo, orrendamente solo.
Vagava, incarnando l’archetipo del viandante.
Sempre in cerca, ovunque straniero.
Un giorno accadde. Si trovò circondato da quattro giaguari. Il quattro, simbolo della totalità. Ormai spacciato.
Fu lì che un dogo, il cane cacciatore dei giaguari, intervenne. La lotta fu furibonda, ma alla fine, seppur a caro prezzo, ebbe la meglio.
Non si lasciarono più, uno accanto all’altro, uno nell’altro.
A volte, quando la luce colpiva in una certa maniera gli occhi di quel cane, in fondo ad essi si poteva cogliere lo sguardo del bambino.
Due sogni aveva quel fanciullo, nel frattempo diventato un monaco guerriero. Diventare l’uomo della medicina, stregone e sciamano, ed imbarcarsi un giorno su una baleniera, per osservare le balene, i grandi cetacei, immergersi dinnanzi alle coste dell’Islanda, nelle profondità dell’abisso. Chissà poi perché?
Una storia era rimasta impressa nella sua mente. Si racconta che le piccole balenottere non affrontano da sole le acque gelide delle profondità. Hanno bisogno che la madre le accompagni, che s’immerga con loro. Quella mamma, che il bambino sentiva di non aver mai avuto.
Dopo quel viaggio, poteva pure morire.
Fu così che ebbe inizio
Fu così che ebbe inizio.
Un giorno cominciai a salire, ad arrampicarmi sulle rocce e, giunto in cima, davanti a me si aprì un giardino delizioso.
M’inoltrai. Il giardino diventò un bosco rigoglioso.
All’interno una piccola radura, con al centro un abisso. Un minuscolo ponte, senza parapetto, univa le due rive.
“Non passare oltre”, una voce sussurrava.
“Non ora, non posso”, dissi. “Ancora no”.
Poi la vidi. Una donna, una dominatrice, la regina del bosco.
Sembrava ostile. Che fare? Lottare con Lei? Potrei ferirla, o ferirmi.
Il guerriero presente in me si risvegliò. Quel guerriero cresciuto tra vetri taglienti, affilati come bisturi. Fu un attimo, poi si placò.
Era selvatica, di una bellezza selvaggia, con lunghi capelli incolti, seni sodi, con due capezzoli belli come boccioli di rosa.
Fu lì per attaccarmi ma, come per incanto, un grosso lupo comparve accanto a me. Digrignò i denti, e la donna rinunciò. Scomparve nel fitto della foresta.
“Non posso lasciarla, ora che l’ho incontrata”.
La fantasia può aiutarmi, forse la fantasia. Il narrare mondi, il rapirla raccontandole storie. Non voglio cambiarla, non voglio lottare con lei, non voglio soccombere, né farle perdere la sua individualità.
Amarla? Forse si. Sarà possibile?
Se le raccontassi della vita fuori dal bosco? Magari potrebbe nascere nel suo cuore il desiderio di conoscerlo. Potrei parlarle di un sicomoro e dell’incisione del guardiano dei sicomori, incisione capace di rendere dolcissimo un frutto amaro come il miele.
Forse …………… forse.
L'Ombra del Lupo
Dove è stato nel suo incessante girovagare?
Chi ha incontrato?
Una parte di lui si sentiva braccata, in fuga, violenta, solitaria. Capace di stupri, rapine e prevaricazioni.
Un odio sordido provava, profondo, primordiale, come per un capezzolo tolto, anzi mai dato.
Un odio che gli consentiva d’infilare una lama nel basso ventre, e poi di tirar su, a dilaniare tutto ciò che incontrava.
Solo nella notte chiamava, ma nessuno rispondeva.
Imparò a combattere.
E a sopravvivere.
Un giorno s’avvicinò ad una pozza d’acqua. Bevve avidamente, a lungo. La polvere del deserto, che si era incrostata nella sua gola, si sciolse. Alzò lo sguardo, si riposò, poi si apprestò a bere di nuovo. Fu in quel momento che accadde: vide un’immagine, spaventosa, riflessa nell’acqua. La sua.
Era un lupo famelico, nero, con gli occhi rossi invasi di sangue. Si ritrasse, si affacciò di nuovo: era sempre lì. Quell’immagine era ciò che gli rimandavano gli occhi di sua madre. Una madre che vedeva nei maschi, e quindi anche in lui, dei lupi famelici che la insidiavano.
Ne ebbe terrore, fuggì via.
Gli sono occorsi molti anni, e diverse vite, per ritrovare un po’ di sensibilità nel suo cuore.
Tanto l’ha aiutato l’incontro con una bella lupa, dal pelo folto, morbido e caldo. Finalmente poteva specchiarsi negli occhi di qualcuno, e trovare Amore.
Incontrò poi un Orango, che gl’insegnò a superare gli ostacoli, saltando da un ramo all’altro, così come a oltrepassare i propri limiti psicologici.
Ancora oggi però, in quei gelidi tramonti d’inverno, quando scruta l’orizzonte alla ricerca di qualcosa, sente ancora un misto di richiamo e nostalgia per quegli istinti devastanti ma vitali, che ancora emanano un fascino oscuro ed una preoccupante attrazione.
Sente sempre di camminare come sull’orlo di un baratro, e deve prestare attenzione a quell’orrido, che periodicamente fa sentire il suo richiamo.
Il bambino che diventò un lupo
C’era una volta un posto, un deserto, con la terra arida ed arsa e pochi alberi spogli.
Lì viveva un bambino con i calzoni corti ed i calzini bianchi, aveva forse otto anni ed era solo, immensamente solo.
A volte gridava, a voce alta, ma nessuno rispondeva.
Ci volle molto, molto tempo, ma alla fine si rassegnò, le lacrime si asciugarono ed il terrore della solitudine si stemperò.
Prese allora a camminare. Camminava sempre e a volte alzava lo sguardo verso il cielo, per trovare un po’ di conforto nell’idea che aveva del buon Dio.
Successe poi che un giorno vide in lontananza del fumo uscire da un comignolo: era una casa. Si avvicinò circospetto e da una finestra sbirciò dentro. C’era una tavola apparecchiata, con quattro scodelle, e c’erano due bambini, pressappoco della sua età.
Loro però non erano soli: due adulti li accudivano, i bimbi li chiamavano Mamma e Papà.
Fu allora che dopo molto tempo, senza comprenderne il motivo, i suoi grandi occhioni scuri si riempirono di nuovo di lacrime. Rimase parecchio tempo a guardare quello spettacolo, tanto che si fece notte e le candele nella casa furono spente.
Era una notte senza luna.
Andò via al buio e al gelo di una notte desertica, e continuò a camminare finché fu stanco.
Con le nude mani allora scavò una buca, una tana, e s’infilò dentro contento di quel poco tepore che le pareti, a contatto col suo corpo, gli restituivano. Dormì raggomitolato su se stesso, sognando un maestoso falco che si librava nel cielo.
Altre volte tornò nei pressi di quella casa, ma la soffernza era tanta e decise allora di andarsene per sempre.
Si rimise in cammino.
Non era più solo però, un grande falco volteggiava sopra la sua testa, sempre più vicino, finché un giorno si posò sulla sua spalla.
Successe poi che le orme dei suoi piedi, sulla sabbia, divennero quelle di quattro zampe.
Il bambino era diventato un lupo, un lupo forte solitario e ramingo, la sofferenza fu più sopportabile.
Si narra ancora di un lupo, grigio di pelo, che segue un falco, su e giù per le dune.
Girovagarono per anni, compagni di tante avventure, finché si fermarono davanti ad un grosso muro. Era il muro della diga. Al di là della diga, un oceano di acqua. No, non era acqua: erano tutte le lacrime del mondo.
Senza conoscerne il motivo, il vecchio lupo cominciò a piangere. Troppo a lungo aveva conservato quelle lacrime, il suo cuore poteva ora di nuovo sciogliersi. Pianse, pianse e pianse ancora, ed un rivolo di lacrime arrivò a bagnare la base del muro.
Fu allora che per effetto di quelle lacrime la diga si sgretolò, e tutto il dolore del mondo fu liberato.
Il vecchio lupo ne fu travolto, finalmente felice di essere libero, una goccia nell’oceano.
Da allora quel posto non fu più deserto, divenne un’immensa oasi verde, nella quale trovò riposo anche un magnifico vecchio falco.