Tema affascinante e complesso questo. Nessuno, purtroppo, insegna la difficile arte di essere genitore. Non c’è una scuola specifica, né un modello di riferimento. I nostri padri erano, spesso, dei padri assenti. Ciò malgrado non ci si può esimere da questo compito, non ci sono agenzie educative sostitutive. Si può solo contare sulle proprie forze e capacità, fare esperienza sulla propria pelle, soprattutto su quella del primogenito. La responsabilità é qualcosa da cui non ci si può dimettere.
Come sono i padri oggi?
Come dovrebbe essere un Padre?
E come non dovrebbe essere?
Luigi Zoja, nel libro “Il gesto di Ettore”, descrive assai bene la condizione attuale.
Trattasi spesso di padri silenziosi perché deboli, assenti, troppo occupati nella carriera. Dei breadwinner, dei cacciatori di reddito. Oppure padri-amici, quasi coetanei dei figli, padri/fratelli. Padri che delegano completamente, alla propria moglie, l’educazione della prole. Troviamo poi dei padri – fuchi, dediti all’alcool, perenni cacciatori di sesso. Regrediti quasi allo stato animale, tornati semplicemente ad essere “maschi”. Ostaggi del proprio istinto animale maschile, bramosi di una femmina, senza desiderio alcuno di avere un rapporto profondo con lei, rifiutando la paternità dei figli. O padri troppo femminilizzati, con la tracolla di Luis Vuitton, infradito e del tutto depilati. Assai diversi dal virile Ettore che porta un’armatura, aggressiva e difensiva, anche quando abbraccia il figlio. Dal capofamiglia, negli ultimi anni, si é andati verso il “co-parent”, ossia il padre che condivide i compiti della madre. Quando addirittura non si è passati ad una sorta di maternizzazione.
Dunque, il Padre con la P maiuscola, è oramai scomparso.
Mi viene in mente la storia di S., una giovane paziente venuta da me perché soffriva di sbandamenti. L’ennesima visita specialistica aveva escluso qualsiasi causa organica, lo psicologo era la sua ultima spiaggia. Non ci è voluto molto a capire che “sbandava” perché non aveva dei punti fermi nella sua vita, chiedeva regole, contenimento, opposizione, direzione, senso, tutto quello che un padre debole e permissivo non gli aveva mai fornito. Chiedeva un NO, un QUESTO NON LO PUOI FARE.
Il Padre dovrebbe, credo, insegnare al figlio ad essere nella società. Rimanere vicino alla prole nel bene e nell’amore, come fa la madre, ma anche nella forza.
Illuminante, al riguardo, è l’esperienza di Freud con suo padre. Mi riferisco all’episodio del marciapiede: “E tu, cos’hai fatto?” Con calma il padre rispose: “Sono sceso dal marciapiede e ho raccolto il berretto.” Freud ne rimase traumatizzato.
Con me sii buono, amami, sii giusto, ma con gli altri prima di tutto sii forte. Questo avrebbe voluto dire il giovane Sigmund al padre.
L’aneddoto è il seguente. In quel tempo le strade non esistevano. Quando pioveva, per evitare d’infangarsi, mettevano delle passerelle di legno, larghe tanto da far passare un uomo per volta. Il padre di Freud raccontò al giovane figlio che un giorno, trovandosi davanti un omone che non voleva cedere il passo, accadde che l’energumeno gli strappasse il cappello di testa gettandolo nel fango.
Ma anche Jung non era propriamente orgoglioso del proprio Padre, un pastore “tiepido” nella Fede, debole e per nulla autorevole.
Il figlio vuole un padre vincente, se poi vince con giustizia, nel bene e con amore, tanto meglio.
Il padre perdente, alcolizzato, tossicodipendente, disoccupato, come può adempiere con successo alla funzione genitoriale?
John Steinbeck, nel suo capolavoro “Furore”, sul viaggio dei Joad, è chiaro: per i padri l’insuccesso é comunque una colpa.
Questa è la fortuna della madre: sarà valutata solo come madre, per quello che fa con il figlio.
Il padre, invece, non è padre solo per quello che fa con il figlio, ma anche per quello che fa con la società, per come sta nella società, ci ricorda Zoja.
Un padre vincente, dunque, non un padre perfetto, che si staglia come un gigante, modello irraggiungibile per il figlio.
Il Padre dovrebbe, poi, costituire un contenitore, una sorta di parete che protegge, un bordo, un confine, capace d’impedire al figlio di “cadere all’infinito”.
Separare il figlio dalla madre, staccarlo dal seno per farlo crescere. Promuovere la differenziazione, usare la spada per rompere, dividere, aprire la strada all’individuazione.
Neumann ha ben illustrato la circolarità madre–figlio, dalla quale è necessario uscire, con l’immagine dell’Uroboro originario, il serpente che si mangia la coda. Nessuno sviluppo è possibile.
Occorre frustrare in maniera dosata, anche dando delle punizioni; una sorta di rimedio omeopatico. Curare il simile con il simile: piccole dosi di sofferenza, per fortificare la psiche in vista di sofferenze maggiori.
Essere colui che fa “attraversare il deserto” alla prole, certamente accompagnandola, ma non evitandogli le scottature. Non solo “manna” ma anche digiuno.
Essere autorevole, non autoritario. Troppo spesso, oggi, il padre manca dell’uno e dell’altro.
Essere non timoroso del dialogo, non stancarsi mai di parlare. Impedire che si rompa quel sottile filo comunicativo che lega alla propria prole.
Porre delle regole, alcune negoziabili, altre no.
Dare l’esempio, con la propria vita, e in questo modo insegnare senza comandare.
“Perdere” tempo con i figli. Sarebbe più comodo, la sera, lasciarli davanti alla tv, piuttosto che leggergli il libro delle favole. E’ più facile “comprarli”, che “conquistarli”, quindi gli si dà sempre più denaro e sempre meno tempo.
Essere capace di trasmettere progettualità, di rinviare il bisogno, far passare dal concreto al simbolico, favorire l’astrazione, insegnare loro a rinunciare al consumo immediato e divorante, scegliere l’essere, non l’avere.
Orientarli nella vita, aiutarli a scegliere, per poi sostenerli.
Cogliere ogni occasione per lodarli, “ogni” occasione.
E, naturalmente, accettarli ed amarli.
In ultima analisi, con loro, occorre forza e dolcezza. Adempiere la funzione guida ed instaurare un rapporto nutritivo, che promuova la specificità del figlio, che ne favorisca l’Individuazione.
Cesare Casagrande –